domenica 8 novembre 2015

IL DIAVOLO FUOR DI ALLEGORIA: LA DIPENDENZA

 (Difficoltà: 3,2/5)

La narrativa per bambini, così come quella religiosa (la religione rappresenta, dal punto di vista cultural-antropologico, l'infanzia dell'umanità) è da sempre popolata di figure edulcorate. "Edulcorate" perchè passate attraverso il filtro della trasfigurazione narrativa. Ma proprio per questo anche "drammatizzate", cioè tradotte in una scenografia suggestiva per la mente del bambino o del religioso.
Avviene così che l'"orco" di tante favole allude quasi inequivocabilmente al problema della pedofilia, inconfessabile ma presente in tutte le epoche. Che si può dire però della figura del diavolo, per quanto concerne la religione? Il diavolo è, come è noto, "tentazione". Tentazione di potere e di sesso, come vuole la tradizione; ma anche, e con un bacino più largo di riferimenti, "dipendenza": dipendenza da sostanze, da relazioni, da tutto ciò che produce piacere.
Il fascino di tanti racconti alla "Faust" non sta però nella "tentazione": l'elemento sorpresa qui sta a zero, perchè il protagonista è destinato a cedere. Il fascino sta piuttosto nell'inganno che segue la caduta nella tentazione. Si scopre con ineluttabile meraviglia che il diavolo è capace di "cavillare" come i più abili avvocati terreni: la fregatura sta nel gioco dell'articolazione semantica di una parola, nel doppio senso, nel suo poter voler dire un'altra cosa o addirittura il suo contrario. 
E il legame tra dipendenza e inganno è indissolubile: la dipendenza è per definizione qualcosa che "sorge", che c'è mentre prima non c'era. Ma noi la viviamo alla stregua di un determinismo implacabile, nonostante fossimo vissuti tranquillamente senza di essa prima di "contrarla". L'inganno è estremamente potente: la sostanza (e sempre di sostanza si parla, perchè anche le dipendenze da un comportamento come il gioco sono chimicamente traducibili in "spruzzi" di dopamina nel cervello, quindi sono un'assunzione indiretta di sostanza) fa credere all'individuo che la vita senza di essa non sarebbe possibile. Ma è evidentemente tutto frutto di una percezione indotta dalla sostanza stessa: forse la massima espressione del concetto di "cane che si morde la coda". 
Quindi la dipendenza è sempre "sostanza" (dopamina per l'eccitazione, endorfine per l'appagamento). Ma essa è anche "comportamento", perchè è l'assunzione continuata (diretta o indiretta, come si diceva) della sostanza a determinare l'abitudine del cervello a considerarla indispensabile per il funzionamento proprio e del corpo. Per questo chi si occupa specialisticamente di dipendenze sa che la riabilitazione "chimica" copre solo una parte minore rispetto all'educazione a una nuova gestualità e al ripristino di pattern comportamentali fisiologici. In altre parole, non basta disintossicare corpo e cervello; occorre anche lavorare sulle meccaniche del comportamento, per esempio con una terapia di tipo cognitivo.
La "sostanza" è quindi, fuor di allegoria, il diavolo: essa cattura l'anima (ogni pensiero del dipendente si rivolge compulsivamente al gesto che configura la dipendenza), e lo fa con l'illusione di essere imprescindibile per la vita del soggetto dipendente. Ma i due aspetti sono intrecciati: nel catturare ogni pensiero, la sostanza non lascia spazio a visioni di stili di vita alternativi: "E' così e basta". Per il dipendente, l'unica vita possibile appare essere quella del dipendente. La strada della dannazione è spianata, e solo un miracolo può salvarlo.

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