domenica 22 marzo 2015

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9978

(Difficoltà 3,4/5)

Se c'è una cosa che mi fa incazzare, è me stesso quando indulgo, da comunicatore o “blogger”, in slogan. Questo post è quindi un'autodenuncia all'autorità dell'indipendenza e dell'originalità di pensiero, cioè alla mia coscienza. Sono quindi io stesso a presiedere l'autorità che mi deve giudicare: se non è conflitto d'interessi questo...!
Seriamente, non c'è nulla che tradisca più il compromesso con la sostanza di ciò che non funziona nella “società della comunicazione” che il ricorso a slogan, a clichés, a espedienti linguistici che inducano una riconoscibilità superficiale della propria proposta. E' il tipo di familiarità ipnotica propugnata da ogni esperto di comunicazione che si rispetti, e per il quale vale sempre il detto: “Non conta quello che si dice; conta come lo si dice”. Insomma, il perenne dilemma fra sostanza e apparenza, fra profondità ed esteriorità ecc. Va detto che il dilemma è stato in verità risolto da tempo: il linguaggio pubblicitario ha penetrato il nostro costume comunicativo quotidiano ben più di quanto si sia disposti ad ammettere. Cerchiamo tutti, chi più chi meno, di associarci a qualcosa di facilmente identificabile, che ci introduca presso gli altri e ci renda istantaneamente riconoscibili, sia esso una frase o un atteggiamento, un capo di vestiario, un tic e così via. Ma questa auto-stereotipizzazione, che nei casi simili al mio configura almeno in apparenza un atto di masochismo intellettuale, è spesso funzionale alla percezione della propria mediocrità: è meglio essere riconosciuti per una inezia che essere ignorati.

E' per questo che, a corollario di questa auto-analisi e a mò di espiazione, rinuncerò a concludere gli articoli di questa “rubrica” con la frase: “La prossima volta fateci caso...” Riguardo invece all'iniziale “se c'è una cosa che mi fa incazzare...”, mi si conceda, il discorso è diverso: l'abituale incipit serve a far riconoscere la rubrica in questione, e non il sottoscritto.

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