venerdì 21 dicembre 2012

10MILA COSE CHE MI FANNO INCAZZARE/9994

 FENOMENOLOGIA DELL'"ATLETA DI STRADA"

Se c'è una cosa che mi fa incazzare questa è la propensione della gente a farsi del male anche quando crede di farsi del bene, e mi spiego.
Ogni tanto vado a correre per tenermi in forma. Le aree prescelte sono quelle collinari, o comuque quelle il più possibili isolate dal traffico e il più possibile immerse nella natura. La corsa, a piedi o in bicicletta, deve essere un'occasione per stabilire un contatto con la natura, che in cambio ci dà ossigeno fresco da respirare.
Come per l'acculturamento, anche l'attività fisica ha un prerequisito essenziale: la solitudine. Vale a dire che, tanto quanto lo studio è un rapporto fra te e il libro che richiede il silenzio quasi ascetico di un ambiente isolato da interferenze umane, così anche l'attività fisica produce i suoi ricercati effetti se eseguita lontano da quegli elementi che denotano nel nostro tempo, ormai senza eccezioni, la presenza umana: il trambusto veicolare e lo smog.
Se si perde questo fattore di “armonia con la natura”, allora si perde di vista anche il significato dell'attività fisica, che diventa quindi più un bene che un male.
Quello a cui voglio arrivare è una fenomenologia di quello che chiamo “l'atleta di strada”, cioè di coloro che, sempre più frequentemente, fanno attività fisica per le strade delle nostre caotiche e puzzolentissime città. Mi avvio a dissezionarne le caratteristiche:

  1. l'atleta di strada è, per sua disgrazia, un tipo socievole fino all'estremo, un “sociopatico all'incontrario”: non tollera la distanza fra sé e i suoi simili nemmeno in quei momenti che la richiederebbero. Egli studia nelle affollatissime aule studio delle università, con il risultato che: a) deve fare pausa al bar ogni volta che uno dei suoi 100 amici glielo propone; b) deve dribblare mentalmente sghignazzi, sussurri, parlottii e confabulae, moltiplicando il già di per sé erculeo sforzo dello studio. Quando fa movimento, o lo fa nel puzzo di una palestra dove regna l'atmosfera techno di una stazione spaziale e l'eco di un capannone di tessitori cinesi clandestini, o lo fa immerso nella folla cittadina, fra cantieri che fanno rimpiangere i ruderi del dopoguerra, e code di metallo che si srotolano fra un semaforo e l'altro all'ora di punta.
  2. Questa “coazione alla socialità” si ammanta del retrogusto di una vanità mal riposta, veicolata da un unico pensiero sul quale l'“atleta di strada” rimugina senza manco accorgersene: “Voi umili mortali indaffarati in un lavoro che fa schifo e intrappolati nelle vostre gabbie di lamiera ruotate, io qui libero come il vento a mantenermi in forma.” In realtà, gli autisti sono protetti dallo smog che essi stessi producono, e che l'“atleta di strada” respira a pieni polmoni e con cicli di respirazione accelerati. Forse è solo una mia fisima, ma questo mi sembra il prodotto di un fenomeno impostosi negli anni '80: la vanità esteriore che sequestra un'attività fisica e una cura del corpo consumerizzate. L'attività fisica non più come perseguimento della salute, ma come ricerca di un corpo più snello e più scolpito (con effetti di stravolgimento del senso, come nel culturismo ipersteroidizzato). Ma comunque chissà mai che, trotterellando in bella vista e con incedere atletico sulle cementificate promenade cittadine, non si riesca pure a cuccare.
  3. Anche l'“atleta di strada” deve lavorare. Il risultato? Che l'attività fisica ha spesso luogo quando il sole è già calato sopra la città, le strade sono piene di smog accumulato durante tutta la giornata, e le poche piante presenti hanno ormai cessato di emanare ossigeno e cominciano a sputare fuori anidride carbonica. Se mettiamo nel mix pure l'effetto serra, l'atmosfera assume consistenza giupiterina. Siamo all'apice della follia.

Conclusione polemica (e non potrebbe essere altrimenti)

Chi svolge attività fisica in questo modo dovrebbe riflettere sul fatto che si consegna a un'attività che già di per sé impone sacrifici, e che ottiene poi l'effetto contrario; in pratica, si sforza di farsi del male credendo di farsi del bene. Gli antichi dicevano “mens sana in corpore sano” intendendo così dire che un corpo sano aiuta a pensare meglio. Invertendo e parafrasando, si potrebbe dire che la stoltezza del comportamento dell'"atleta di strada" lo fa stare fisicamente male (nel mentre che crede di fare il proprio bene). 

Anche se non siamo in estate, ecco il mio tormentone: "La prossima volta, fateci caso"!


"Magari tu ci hai le gambe più lunghe, però io in cambio sono più intelligente."